Tutti ricordiamo l’assalto agli scaffali di farine e lieviti nel primo lockdown. Una passione per la cucina casalinga che è svanita in fretta e già nel secondo lockdown gli italiani hanno scelto piatti pronti, possibilmente consegnati a domicilio. Sedici mesi di pandemia si possono leggere anche osservando il carrello della spesa, lente di ingrandimento dei cambiamenti sociali.
Ci aiuta in questa analisi Armando Garosci, coordinatore della Filiera Largo Consumo di Assolombarda e direttore del mensile di economia e del retail Largo Consumo.
Come ha inciso la pandemia sui consumi?
Siamo effettivamente partiti da una dimensione da “Day after”, riempiendo le dispense di conserve, pasta, prodotti a lunga durata che hanno registrato un’impennata nelle vendite. Poi c’è stata una normalizzazione degli acquisti quando si è capito che i supermercati avrebbero continuato a rimanere aperti. Ciò che è stato penalizzato all’inizio sono stati tutti i prodotti ad alto valore aggiunto, i piatti pronti che assicurano un risparmio di tempo in cucina. È un fenomeno che è durato poco per coloro che hanno proseguito l’attività lavorativa. Gestire da casa, famiglia e lavoro non è facile, la pausa pranzo resta sempre di un’ora, e allora si è ritornati all’acquisto graduale di prodotti a maggior servizio.
Abbiamo visto in questi mesi bandiere alle finestre, inni cantati al balcone. C’è stata una voglia di italianità anche a tavola?
C’è del vero, ma anche un po’ di retorica. Una parte della popolazione ricerca prodotti con forte identità nazionale, sopra media la popolazione a più alto reddito e istruzione, ma gli stili di consumi sono tanti ed è difficile generalizzare. Il valore dell’italianità, di per sé, non è sufficiente perché non è vero che la qualità derivi solo dalla materia prima o dalla produzione italiana. In questo senso la marca dell’industria e della distribuzione giocano un importante valore nella rassicurazione e garanzia per i consumatori. Anche leggere l’etichetta è importante, perché contiene utili informazioni nutrizionali e sul produttore. Come italiani, abbiamo una tradizione che deriva dai Consorzi di tutela, che sono sinonimo di qualità nella geografia. Altri, come gli inglesi, badano più ai contenuti nutrizionali che all’origine, sarà per questo che le loro certificazioni di qualità come la “Brc”, sono diventati standard internazionali de facto e oggi conducono battaglie politiche sulle etichette nutrizionali.
La crisi sanitaria è ora crisi economica che ha accentuato le differenze tra chi ha risparmiato e ha potuto acquistare prodotti gourmet e chi si è rivolto ai discount. Come vede questa polarizzazione?
È vero che la pandemia ha indotto lo Stato ad accrescere il proprio rapporto tra debito pubblico e Pil di 30 punti percentuali. Però ciò ha permesso di proteggere più posti di lavoro, soprattutto quelli a tempo indeterminato. Le minori occasioni di spesa, il timore del futuro e la protezione del lavoro ha permesso l’accumulo di risparmio da parte delle famiglie e si spera che questa massa di denaro possa tornare a fluire sostenendo la ripresa.
E cosa c’è alla base del successo dei discount?
Per capire il fenomeno bisognerebbe chiarire cosa significhi il termine discount oggi. Il concetto stesso di low cost (“perché spendere di più?”) è stato efficacemente sdoganato in tanti settori oltre al commercio, come le compagnie aeree o le assicurazioni auto online perché le insegne di questo segmento hanno fatto molto per modificare il proprio immaginario.
La società ha metabolizzato il compromesso offerto da questi efficienti modelli commerciali, e li ha accettati. Questi fenomeni non sono una novità: anche quando hanno aperto i primi supermercati negli anni Sessanta i clienti si scandalizzavano del fatto di dover imbustare da soli la spesa. Si comprendeva però che servirsi da soli partecipava a un risparmio che valeva lo sforzo. Al di là delle opportunità di convenienza, tuttavia, speriamo tutti in un celere ritorno all’economia pre-crisi.