In hac insignia vinces - Sotto questa insegna vincerai

Un viaggio nell’evoluzione della parola impresa e servire all’interno della lingua italiana.

speciale: Assemblea Assolombarda 2019

Un’impresa, nel suo significato corrente di azione gloriosa (può risultare altrimenti ardua, rischiosa o impegnativa), è già dantesca; nell’ultimo canto del Paradiso l’impresa, che risente qui del fr. emprise ‘atto eroico’ (sec. XII), è quella degli Argonauti: con la loro nave furono i primi ad affrontare il mare, provocando lo stupore del dio Nettuno («Un punto solo m’è maggior letargo / che venticinque secoli a la ’mpresa / che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo», XXXIII, vv. 94-96). Ma un’impresa, nell’italiano odierno, è anche un’attività economica (commerciale, industriale, finanziaria) o l’azienda che la svolge, oppure, in campo araldico, una divisa in cui un motto si sposa a un’immagine per rappresentare simbolicamente un’azione da intraprendere o un comportamento da seguire. Anche in questo caso l’Italia è debitrice della Francia, sebbene le imprese fossero già note ai Greci e ai Latini: al tempo della discesa in Italia dell’esercito di Luigi XII (1499) il costume di abbellire abiti, drappi, bandiere, copricapi alla maniera delle francesi devises godette di larga fortuna tra i letterati della penisola.

Lavoro dunque servo

Se consideriamo l’ultimo significato della parola impresa, che nel matrimonio fra un’immagine e un motto vede dunque proiettata l’idea di un intendimento o un proposito (anche questo significato di impresa è dantesco: «E qual è quei che disvuol ciò che volle / e per novi pensier cangia proposta, / sì che dal cominciar tutto si tolle, / tal mi fec’io ’n quella oscura costa, / perché, pensando, consumai la ’mpresa / che fu nel cominciar cotanto tosta, Inf. II, vv. 37-42), un’impresa che si ponesse al servizio di un paese potrebbe essere figurata dal lavoro e scolpita dalla frase Labor servit. Grazie all’ambiguità di quel servit il lavoro arriva a servire due volte, per scopi diversi: serve a produrre reddito, ricchezza, benessere e una quantità di altre cose; si mette al servizio di chi quel lavoro lo impartisce o lo esegue con cura, impegno o attenzione, e spesso fatica (laborioso dice proprio questo, e d’altronde il latino labor era sinonimo, oltreché di lavoro, di sforzo o fastidio, pena o tormento).

C’è servizio e servizio

È curioso pensare che una parola bella e impegnativa come servizio possa essere discesa dal latino servitium (derivato di servus), sinonimo di servilismo o, peggio, di servitù, schiavitù o asservimento. Tutti significati che l’italiano non ha in ogni caso ereditato dall’antica lingua di Roma, di cui ha invece accolto il valore di ‘sottomissione’ o ‘subordinazione”: servizio, fra Medioevo e Rinascimento, si trova spesso adoperato a indicare il rapporto di soggezione, subalternità o dipendenza (di uomini d’arme, dignitari di corte, cancellieri o altri funzionari) da feudatari, principi o signori. 

Linguaggio completo

Difficile dire con precisione quando si sia aggiunto in italiano ai significati indicati, e ad altri che attestano un’analoga condizione di subalternità, con le azioni che il subalterno è tenuto a compiere a vantaggio di altri (come quando parliamo di donna di servizio o di servizio in camera), il significato pienamente positivo, registrato almeno a partire dal Cinquecento, di chi mette la sua professionalità, la sua competenza, la sua esperienza a disposizione di altri, per l’appunto in un’ottica di servizio, perché possano goderne, ricavarne profitto per il bene collettivo, trarne vantaggio come parte integrante di una comunità di cittadini volta al raggiungimento di obiettivi partecipati e di maturazione, di responsabilizzazione o di crescita. 

Imprese private di pubbliche virtù

«Servizio della patria» è espressione circolante già nel XVII secolo; a documentarla è lo scrittore veneziano Giovan Francesco Loredan (o Loredano). Con l’unità d’Italia le testimonianze di servizio come propensione a servire una nazione (o un’istituzione, il nostro prossimo, i difensori di una causa, ecc.) si moltiplicano, da Cavour («Molti industriali, molti commercianti […] mettono le loro cognizioni, le loro esperienze caritatevolmente al servizio del pubblico») a Manzoni:

«Chi è di questi bravi signori che voglia insegnarmi un’osteria, per mangiare un boccone, e dormire da povero figliuolo?» disse Renzo. 

«Son qui io a servirvi, quel bravo giovine», disse uno […]. La radunata si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, s’avviò con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia. 

«Di che cosa?» diceva colui: «Una mano lava l’altra e tutt’e due lavano il viso. Non siamo obbligati a far servizio al prossimo?» (I Promessi Sposi [1840], cap. XIV).

Tanto più obbligati se, da imprenditori, si accetta la sfida di valorizzare, della parola impresa, il suo lato migliore. Quello di un alto proposito, di un intendimento serio: servire il paese per tentare, chiamando tutti all’appello, di ridisegnarne e di riformularne la divisa. Il lavoro nobilita l’uomo, recita il vecchio detto. Un’impresa “servizievole” può abilitare quell’uomo a cittadino attivo.    

 
 
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