Abbiamo chiesto a Valentina Vezzali di raccontarci come l’amore verso il nostro Paese l’abbia spinta oltre i propri limiti a condurre la sua impresa sportiva.
Impresa è un termine con tante declinazioni, oltre a quella economica. Può trattarsi di impresa scientifica, di impresa cavalleresca o di un grande condottiero da narrare per secoli. Ma c’è anche l’impresa sportiva. Secondo la sua esperienza quali sono i punti in comune tra la vita di un imprenditore e quella di un atleta?
Secondo me non è un caso che si utilizzi lo stesso termine per indicare “impresa”. C’è infatti più di un elemento in comune tra un’impresa sportiva e una economica. Intanto pensiamo alla passione e al talento che di solito danno vita e alimentano tanto un’impresa sportiva quanto una economica. Ma nessuna passione e nessun talento nell’uno come nell’altro campo sono sufficienti a ottenere risultati e magari successi senza investimento: non tanto di capitale, ma di tempo e dedizione. Il lavoro, nell’impresa economica come in quella sportiva, paga. Infine serve la costanza, il “non mollare mai”, il non pensare di essere giunti al vertice e continuare a investire tempo, risorse e tenere viva la passione, la lucidità, la voglia di vincere, rinnovando gli obiettivi e ravvivando le sfide.
Quali sono i motivi che l’hanno spinta a sfidarsi continuamente e a superare i limiti?
Non scegli a tavolino di imbastire una sfida. È la passione che ti fa tenere accesa la fiamma e che ti fa tornare in pedana dopo aver vinto una medaglia d’oro o dopo aver conquistato la sfida. Gli stimoli sono dentro te, sono loro a dettare i tempi di ogni “impresa”. Non ci si ferma mai. E anche oggi, che la pedana è lontana e il fioretto è al chiodo, vivo di nuove sfide. Credo che ogni persona viva di stimoli. Gli imprenditori ne sono un esempio almeno quanto gli sportivi: non è il primo bilancio chiuso in attivo a spegnere l’entusiasmo iniziale e a fermare le macchine, anzi: da lì si riparte ogni volta per affrontare nuove sfide.
Quale è stato il momento più emozionante della sua carriera?
Ne sceglierei due. Il primo è sicuramente alla base di tutta la mia carriera. È stata la mia prima vittoria a livello nazionale: era il campionato italiano under14 e si disputava al PalaEur di Roma. Ricordo ancora perfettamente il momento della mia ultima stoccata, quella della vittoria, perché l’arbitro non fece in tempo a ufficializzare la vittoria che mi ritrovai in aria, tra le braccia di mio padre che mi fece roteare stretta in un abbraccio che sento ancora oggi. A ogni vittoria ho sentito forte quell’abbraccio anche dopo la sua morte.
Il secondo momento emozionante è legato a Londra2012 e all’onore che ho avuto di portare il tricolore nella cerimonia inaugurale dei Giochi Olimpici. Ricordo il “peso” del valore di quella bandiera e anche di rappresentare quel gruppo di atleti che mi seguivano festanti. È stata un’emozione unica che ancora oggi avverto ben viva.