Scelti per voi - Dalla crisi della globalizzazione alla riconfigurazione delle catene globali del valore

25 settembre 2020

Il Covid-19 ha dimostrato quanto, in un’epoca globalizzata, se si ferma un Paese, si rischia di far fermare tutto il mondo. Poi, in realtà, si è fermato tutto il mondo perché l’epidemia è diventata pandemia e quindi ha colpito tutti i Paesi e richiesto che i diversi governi attuassero misure restrittive tali da bloccare in parte o completamente la circolazione delle persone e delle merci.

Questa situazione ha portato e tuttora porta con sé numerosi interrogativi sulla direzione verso cui la nostra economia e la nostra società stanno andando: stiamo assistendo a una crisi di mezza età della globalizzazione? Poiché la globalizzazione è stata causa del problema economico, può essere anche la soluzione oppure no? Il nazionalismo è destinato ad aumentare mentre la globalizzazione è destinata a ritirarsi? 

E ancora: la rapida riconfigurazione delle catene di approvvigionamento e distribuzione, sia a livello internazionale che nazionale, è permanente? Assisteremo a un definitivo cambiamento dal lato della produzione passando da una "just-in-time" a pratiche che rafforzano, invece, la resilienza (ad es. scorte, capacità ridondanti, sistemi duplicati)? Come cambieranno i modelli di business? Ci sarà una tendenza accelerata al re-shoring? 

Certamente, la possibile espansione del nazionalismo e l’arretramento della globalizzazione è frutto del comportamento a lungo termine di tutti i paesi che hanno chiuso le loro frontiere (in Europa, per esempio, con il blocco accordo di Schengen) e questo avrà delle conseguenze politiche significative per gli atteggiamenti nei confronti del globalismo, delle necessità o meno delle frontiere e della gestione dell’immigrazione. Ma, la crisi evidenzia la necessità di una collaborazione internazionale, che riunisce i paesi di tutto il mondo nella lotta contro il virus.

Una pandemia globale necessita di una risposta globale e di una collaborazione internazionale. Questa è la più grande prova per la cooperazione multilaterale da oltre 75 anni: se un Paese fallisce, allora falliscono tutti. È necessario trovare soluzioni a livello globale che aiutino tutti i segmenti della società, in particolare quelli che sono maggiormente vulnerabili.

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Ma la globalizzazione era in difficoltà già prima della pandemia. Il The Economist che s’interroga “Has covid-19 killed globalisation?” ci ricorda, infatti, che il sistema aperto di scambi commerciali che ha dominato l'economia mondiale per decenni è stato danneggiato prima dal crollo finanziario del 2008, poi dalla guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina e ora si sta riprendendo dal terzo shock in una dozzina d'anni, il lockdown causato dalla pandemia Covid19 che ha portato alla chiusura delle frontiere e al blocco del commercio. 

Per il The Economist lo scenario è uno ed è certo: la pandemia rafforzerà la tendenza all'autosufficienza. Questa “sbandata” verso l'interno indebolirà la ripresa, renderà l'economia vulnerabile e diffonderà l'instabilità geopolitica. In tutto il mondo l'opinione pubblica si sta allontanando dall’idea di vivere in un mondo globalizzato. Ma – ci racconta sempre il The Economist - un mondo diviso rende più difficile la soluzione dei problemi globali, compresa la ricerca di un vaccino e la garanzia di una ripresa economica. Il commercio mondiale di beni, ad esempio, potrebbe ridursi del 10-30% nel 2020.

Sul tema della riconfigurazione delle supply chain interviene Ispi - in un recente contributo “Le catene globali del valore post-virus” a firma di Domenico Bevere – che chiarisce che nell’ultimo decennio le imprese hanno ridefinito le proprie competenze attraversando le frontiere nazionali in modo da stabilire reti produttive con altre imprese localizzate dove è possibile sfruttare al massimo i vantaggi comparati nella produzione di beni e servizi intermedi. Gli anni Duemila si sono caratterizzati per una rafforzata presenza di imprese distrettuali nei mercati del Sud-Est asiatico, le quali hanno delocalizzato la produzione trasferendo con essa anche il proprio know-how manageriale, commerciale e tecnologico. Di fatto manodopera a basso costo lavorava con tecnologia avanzata, rendendo questa combinazione estremamente competitiva. La conseguenza è stata che a cavallo del 2000 quasi un quinto dell’industria mondiale si è spostata dal G7 all’I6 (Cina, India, Corea, Indonesia, Thailandia e Polonia). La Cina più di tutte ha abbracciato completamente la rivoluzione della catena globale del valore, considerando la globalizzazione secondo una prospettiva storica: oggi è di gran lunga più dispersa, più ricca di motori e partecipanti, nonché più robusta e inclusiva - e dunque più stabile - di quanto non lo sia stata in passato.”.

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LaVoce.Info, in un recente articolo “Catene del valore: se la Cina chiude, l’Italia soffre”, riporta i risultati di un'analisi che hanno condotto riguardo all’impatto del blocco cinese sulla produzione delle regioni italiane nel corso del mese di febbraio, che è proprio quello che precede lo scoppio della pandemia in Italia e che coincide con l’attuazione delle misure restrittive messe in atto dal governo di Pechino a seguito dell’aggravarsi della situazione in Cina. L’analisi è stata fatta utilizzando un modello econometrico che illustra la dinamica della produzione industriale delle regioni italiane in relazione al contributo cinese in termini di beni e servizi intermedi alla produzione delle esportazioni interregionali e internazionali di ciascuna regione. L’analisi ha misurato e confermato la rilevanza, soprattutto per alcune regioni, della correlazione tra esposizione a monte verso la Cina per beni e servizi intermedi e dinamica della produzione industriale locale in Italia. Ne consegue che – chiude l’articolo - “comprendere se e come le catene del valore saranno modificate dalla crisi causata dal Covid-19 è uno dei temi di ricerca da esplorare nel prossimo futuro.”.

Business Insider Italia, invece, riprendendo l’analisi fatta dalla Bank of America titola: Fuga dalla Cina, per BofA il reshoring costerà 1 trilione di dollari alle aziende. Ma pagherà nel lungo termine. Infatti, il report della banca multinazionale guidata dal CEO Brian Thomas Moynihan riferisce che a seguito della crisi sanitaria da Covid19, l’80% delle imprese a livello globale ha dovuto affrontare problemi sulla catena di approvvigionamento, dovuti soprattutto ai lockdown in Cina e questo ha avuto quale conseguenza che il 75% delle realtà produttive ha deciso di ampliare e potenziare i piani di reshoring già esistenti. Non solo gli Stati Uniti d’America e il Giappone, ma anche i Paesi europei – sempre secondo Bank of America - si stanno muovendo in questa direzione, verso il cosiddetto “capitalismo degli stakeholder” e sempre più lontani dalla Cina. Business Insider riprende le parole del ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire quando, già la scorsa primavera, sosteneva che la Francia dovesse assolutamente “ridurre la (propria) dipendenza da alcune potenze globali, in particolare la Cina, per gli approvvigionamenti di certi prodotti” e “rafforzare la (propria) sovranità in settori strategici come l’automotive, l’aerospaziale e il farmaceutico”Macron non ha tardato ad agire e lo scorso giugno ha annunciato la gara per riportare in Francia la produzione di 30 farmaci generici usati per combattere il coronavirus.

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Infine, Formiche.net ci ricorda che “Così (con il re-shoring) l’Ue taglia il cordone con la Cina. La Commissione Europea nelle prossime settimane istituirà un’Alleanza europea per le materie prime. L’obiettivo? Rafforzare l'approvvigionamento interno di materie prime nell'Ue, potenziando le attività estrattive e diversificando le fonti di approvvigionamento da paesi terzi con partenariati strategici e finanziamenti ad essi associati. 

Il Commissario francese al Mercato unico Thierry Breton non ha dubbi: “L’era di un’Europa conciliante o naif che dipende da altri per difendere i suoi interessi è finita”.

Sempre su Formiche.net, il deputato della Repubblica nonché membro della Commissione Bilancio, tesoro e programmazione e del Comitato parlamentare per la Sicurezza della Repubblica Antonio Zennaro ha commentato: L’Europa sta facendo un brutto risveglio e si scopre dipendente da catene di produzioni cinesi o di altri Paesi non proprio democratici in settori strategici, come i medicinali o le terre rare. (…) Bisogna riportare le principali catene di produzione dal farmaceutico, al settore metalmeccanico e metallurgico in Italia (…).”

Non mancano naturalmente voci estremamente critiche che trattano il tema del “re-shoring” per la sua importanza e strategicità politica, come fa Fabio Sdogati nel suo articolo “Reshoring, backshoring, post-verità e alternative facts“La reindustrializzazione di un Paese attraverso il backshoring è solo un sogno di chi non riesce a pensare al futuro se non come ritorno al passato (…).Le imprese competitive sono quelle inserite in catene globali di produzione, fatto che consente loro di attingere alle migliori risorse, ai migliori sistemi scolastici, ai mercati di sbocco e di approvvigionamento più profittevoli, alle tecnologie nuove e, presumibilmente, migliori. (…). Reshoring come una delle tante misure politiche protezionistiche”.

 
 
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