Anche le più puntigliose analisi sulle vocazioni territoriali a volte inciampano. Prendono clamorose cantonate.
Per Pavia e i suoi territori è accaduto, per esempio, a metà Ottocento quando un solido funzionario del Regno Lombardo-Veneto, vagliando in un "Rapporto economico-statistico" della Camera di Commercio gli orizzonti produttivi locali, formulò la sua diagnosi.
A causa del "difetto d'energia degli animi, e alla prepotente forza di una contraria abitudine, il moto commerciale e industriale della Provincia di Pavia" gli pareva "languido e stagnante". E questo nonostante la popolazione gli sembrasse fornita "d'ingegno, e di attitudine a qualsivoglia lavoro, per quanta magistrale competenza richiedesse". D'altra parte Pavia, allora, era pur sempre l'unica città universitaria della Lombardia. Con Padova formava il prestigioso tandem accademico italiano al servizio dell'impero di Vienna e della dinastia degli Asburgo. Pavia ospitava un ateneo plurisecolare. Vi erano stati di casa Cardano, Volta, Foscolo; luminari della medicina di fama europea come Scarpa e Franck; padri fondatori delle scienze naturali quali Spallanzani e Scopoli. E il bouquet dei nomi celebri di allora, ma anche di quelli venuti dopo, potrebbe continuare ancora a lungo (ma uno solo, Camillo Golgi, il primo Nobel per la scienza attribuito ad un italiano, forse può bastare).
Comunque mai diagnosi si rivelò tanto fallace quanto quella contenuta in quel lontano "Rapporto economico-statistico". Incapace di cogliere quello che intanto il tempo stava preparando.
Una provincia divisa in tre
Infatti un secolo dopo, o poco più, quella era stata a lungo una provincia essenzialmente agricola, penalizzata dall'esser costituita da un trittico di territori - Pavese, Lomellina, Oltrepò - incollati assieme dall'unificazione nazionale, ma provenienti da sovranità, storie e culture assai diverse, viene a mostrare ben altro volto.