Lavoro. Politiche attive, un telefono ‘senza wi-fi’ da riparare con urgenza

È urgente riparare il ‘corto circuito’ che permane nel sistema delle politiche attive per il lavoro in Italia, un tema tra i più discussi da oltre un ventennio e oggi quanto mai centrale. La grave crisi economica causata dall’emergenza sanitaria da Covid-19 e le ingenti risorse europee stanziate nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), impongono nuovi strumenti capaci di accompagnare imprese e lavoratori nella fase di ripresa economica italiana. Primo passo è superare il dibattito, spesso politico, che ruota solo attorno a misure nazionali come il Reddito di cittadinanza e l’Assegno di ricollocazione, per partire dai dati reali. Un contributo viene dalla ricerca ‘Le politiche attive nei moderni mercati transizionali del lavoro’, nata dalla collaborazione tra Adapt (Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del lavoro e sulle Relazioni Industriali) e Assolombarda. 

Nello studio, in cui sono state coinvolte in tutto 46 aziende (che occupano complessivamente 25.812 lavoratori), la quasi totalità dei partecipanti ai ‘focus group’ ha indicato nella formazione lo strumento centrale delle politiche per il lavoro, soprattutto nei percorsi di riqualificazione professionale (upskilling e reskilling) nel quadro di riorganizzazioni aziendali. Ne emerge un quadro di sostanziale assenza di dialogo tra le imprese, la rete locale pubblica dei servizi per il lavoro e gli enti accreditati per la formazione. Il sistema appare come un ‘telefono senza fili’, o, usando una metafora al passo con i tempi, ‘una telefono cellulare con il wi-fi disattivato’. Urge una nuova connessione tra le parti, per far funzionare l’intero sistema.   

“Quello che emerge dalle aziende provenienti da diversi settori (meccanica, chimica, turismo) e territori (Milano, Lodi, Pavia) è la mancanza di un supporto pubblico adeguato alle esigenze come la formazione dei lavoratori, la loro ricollocazione in caso di esuberi e l’incrocio tra domanda e offerta del mercato del lavoro- spiega Francesco Seghezzi, studioso di Adapt e tra i relatori della ricerca-. La conseguenza è che le imprese non si rivolgono ai centri pubblici per l’impiego, perché le stesse imprese conoscono, per esperienza ‘sulla loro pelle’ le difficoltà che troverebbero. Questa inadeguatezza è riconducibile alla cultura con cui è sempre stato concepito il centro pubblico per l’impiego, ovvero non come un servizio alle imprese ma come un supporto a una particolare fascia di lavoratori in difficoltà (non è un caso che l’unica efficace offerta di servizi sia quella per il collocamento mirato dei lavoratori disabili)"

Nel complesso quadro attuale, segnato da profonde transizioni verso il digitale e l’economia green, oltre che dalle conseguenze della pandemia, continua l’esperto, “i lavoratori in difficoltà sono sempre di più, appartengono a professioni diverse e le competenze che vengono richieste sono sempre più specializzate”

Lavoro. Politiche attive, un telefono ‘senza wi-fi’ urgente da riparare

Il mercato del lavoro è sempre più complesso. Una sfida per gli operatori privati

“Le agenzie per il lavoro private funzionano molto bene, ma potrebbero fare ancora meglio”, osserva Seghezzi precisando che “ad incidere sono anche i sistemi di accreditamento locali e le politiche regionali”. Rispetto allo scenario lombardo in cui si inserisce la ricerca, “ci sono aspetti positivi, come la ‘Dote Unica Lavoro’ che offre al lavoratore risorse con le quali può scegliere liberamente come e dove formarsi (sia presso centri pubblici che privati). Tuttavia ci sono ancora margini di miglioramento per le agenzie private affinché si inseriscano in quei mercati del lavoro territoriali dove le esigenze di riqualificazione e ricollocazione saranno sempre più marcate”

Un problema comune agli enti formatori, sia pubblici che privati, è quella di offrire una formazione che sia veramente aggiornata e in linea con le esigenze del mercato del lavoro. Oggi la digitalizzazione genera una domanda di competenze che evolve rapidamente e la transizione ecologica all’orizzonte avrà certamente un impatto sulla domanda di ‘skills’, rivolta sia ai lavoratori ‘nuovi’, sia a quelli 'vecchi' che dovranno essere riqualificati”

Le competenze giocano un ruolo determinante

Un altro dato emerge dalla ricerca Adapt-Assolombarda: secondo le imprese intervistate il sindacato, in larga parte, non sempre è disponibile a lasciarsi coinvolgere in piani di ricollocazione dei lavoratori in esubero, ma è più propenso a utilizzare fondi per la ‘buona-uscita’ o pre-pensionamento. “Le ragioni sono diverse -ragiona Seghezzi-, spesso i piani di ricollocazione non sono ben strutturati perché manca l'infrastruttura adeguata. L’auspicio sarebbe quindi che il sindacato inserisca tra i contenuti principali della contrattazione il tema delle competenze e della riqualificazione, con percorsi formativi continuativi all’interno della carriera dei lavoratori, ‘leva’ sempre più indispensabile”.  

Lavoro. Politiche attive, un telefono ‘senza wi-fi’ urgente da riparare

Le risorse arriveranno dal PNRR, ma i territori devono essere al centro

Un tema riguarda le risorse dedicate alle politiche per il lavoro: una richiesta delle aziende intervistate da Adapt-Assolombarda è l’attuazione strutturale e permanente del ‘Fondo nuove competenze’ introdotto durante la prima ondata pandemica. Un altro ‘capitolo’ riguarda il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che prevede oltre 6 miliardi di euro, di cui 600 milioni per il rafforzamento dei centri pubblici per l’impiego, 4,4 miliardi di euro per il Piano nazionale nuove competenze (Pnc) e per il Programma nazionale per la Garanzia occupabilità dei lavoratori (Gol). “I fondi sono ingenti e per una loro ‘messa a terra’ efficace- sostiene Seghezzi, è necessaria una politica che metta al centro i territori e le relazioni industriali. I modelli devono essere sviluppati a livello territoriale, con il coinvolgimento di tutti gli attori: imprese, sindacati, istituzioni, centri per il pubblico impiego. Sono questi i soggetti che devono, infatti, governare i processi di riqualificazione. Una proposta, che viene dal mondo delle imprese, è la possibilità che i centri pubblici abbiano un ruolo nella fase iniziale della ‘politica attiva’, quella burocratica, mentre i privati possano gestire la fase successiva, riguardante la formazione e il ricollocamento”

Soluzioni: mappare i fabbisogni locali e attivare il ‘digital badge’ 

Un modello da replicare è quello francese chiamato “Transitions Collectives” (attivato dal governo di Parigi nel gennaio 2021). “Si tratta di una misura che permette alle imprese che stanno affrontando processi di riorganizzazione di beneficiare di un contributo pubblico per sostenere ‘Transizioni Collettive’ dei propri lavoratori verso professioni ricercate nei bacini territoriali di riferimento”, spiega ancora Seghezzi, “creare un bacino di informazioni sul mercato del lavoro locale è senza dubbio una ‘pratica’ fondamentale per rendere efficace e per indirizzare i servizi di orientamento al lavoro e formazione. L’obiettivo non è solo quello di rendere note, come già previsto dalla legge, le ‘posizioni di lavoro aperte’ ma individuare, secondo una logica anticipatoria, i ‘nuovi mestieri’ e la ‘messa in rete’ dei settori in espansione. In concreto si propone una mappatura dei fabbisogni professionali nei diversi settori, a livello aziendale, territoriale e centrale, mettendo a ‘fattore comune’ anche le competenze dei lavoratori. Tutto questo oggi ancora non avviene”.  

A proposito di ‘connessioni’ utili, bisogna collegare il sistema pubblico di certificazione delle competenze: “Bisogna ‘ufficializzare’ le competenze acquisite ‘sul lavoro’ che l’azienda può certificare - conclude Seghezzi-. Strumenti come i ‘Digital badge’, ampiamente riconosciuti nei mercati professionali di riferimento e anche all’estero, devono funzionare anche in Italia.

 
 
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